Era il 1962 quando Luciano Bianciardi (Grosseto, 1922 - Milano, 1971) pubblicava il romanzo La vita agra e contemporaneamente dava alle stampe la traduzione delle 672 pagine di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno di Henry Miller. Il successo come narratore lo travolse, eppure, nonostante i consensi della critica, non smise mai di tradurre. Fino al 1971, quando ancora uscivano in italiano testi di autori come William Faulkner, Bianciardi diede voce a circa 140 opere con un lavoro ai limiti delle proprie possibilità. Ed ora, a 35 anni dalla morte dello scrittore, ci si interroga sui motivi sottostanti il suo impegno come traduttore, inevitabilmente condizionato dalla sua straordinaria e camaleontica verve di narratore.
È grazie alle teoria di studiosi come George Steiner, Paul Ricoeur e Antoine Berman, che è oggi possibile decostruire la figura di Bianciardi-traduttore, e finalmente comprendere le contaminazioni tra le opere tradotte e quelle create di propria mano. E capire così quel che egli stesso definì “un lavoro da artigiano”, un lavoro in cui, a parte la macchina, il resto è semplicemente “fatica di un uomo solo”.