Nella folgorante, intensissima, e purtroppo breve, esperienza intellettuale di Piero Gobetti l'eredità ideale di Vittorio Alfieri fu e resta un elemento privilegiato. La riproposta di Alfieri come esponente del «liberalismo immanentistico», ovvero laico e privo di condizionamenti confessionali, si inseriva nella attenzione di Piero al Settecento, all'Illuminismo, e nella sua aspirazione ad aprire la cultura italiana a quella europea. Piero tenne Alfieri come autore eminente della nostra letteratura (da lui però riletta con attenzione specifica a sue elevate motivazioni civili e politiche).
Questo volume considera due aspetti dell'alfierismo gobettiano: la fondazione di una nuova critica alfieriana (che annovererà poi i nomi di Mario Fubini, Luigi Russo, Walter Binni, Natalino Sapegno, e attraverso questi, dei loro allievi e prosecutori) e la storia del motto greco – Che ho a che fare io con gli schiavi? – che, tratto da una lettera di Alfieri del 1801, fregerà le edizioni gobettiane dalla fine del 1923 fino al 1929. Molti si sono posti il problema della sua origine. Esso (qui si intende mostrare) non fu suggerito da nessuno scrittore greco antico, ma fu creazione alfieriana, nata dagli studi di greco e dagli spiriti misogallici del maturo poeta. A proporlo a Piero fu Augusto Monti. Il motto fu disegnato da Felice Casorati e appare ancora su varie pubblicazioni del Centro Studi Piero Gobetti. Nella domanda del motto ben si incontrarono lo sdegno antitirannico di Alfieri deluso dalla rivoluzione francese e la volontà gobettiana di non far coro con i tanti che correvano a farsi servi della nascente dittatura.